Nei lontani anni ’60 l’ospedale veterinario di Sghedeida portava ancora su di una parete, sbiadito dal tempo ma ancora leggibile, la vecchia denominazione risalente agli anni ruggenti del bieco colonialismo e cioè ‘Infermeria Quadrupedi’. Era una struttura di tutto rispetto con una quindicina di box, un ampio maneggio, una sala operatoria con tanto di lettino verticale ribaltabile, più altri servizi come vasche di disinfestazione e quant’altro.
Deus ex machina di questo microcosmo era un infermiere di nome Scia-aban onnipresente a tutte ore del giorno e della notte. Le due ‘a’ del nome non erano un raddoppio di vocale ma un cambio di vocale in quanto la prima ‘a’ era una vera ‘a’ e la seconda era una ‘aen’ cioè una ‘a’ un po’ gutturale. Nella pronuncia del nome, tra la prima e la seconda ‘a’, bisognava fare una impercettibile pausa e atteggiare la bocca alla gutturalità ( se mi è permesso questo neologismo). Questo Scia-aban viveva in simbiosi con i cavalli e non era solo infermiere ma svolgeva molteplici funzioni diurne e notturne come guardiano, custode , magazziniere, maniscalco, e molto altro ancora. Viveva a Sghedeida con la moglie e una nidiata di marmocchi che lo seguivano piagnucolando con l’immancabile moccio al naso fin sotto la pancia dei cavalli. Ma i cavalli erano troppo intelligenti per far del male a dei bambini e non ricordo che a loro sia mai successo niente.
I pazienti di Sghedeida erano tutti cavalli appartenenti alle forze di polizia della Tripolitania ed erano affetti in gran parte da zoppicature dovute all’uso sconsiderato dei cavalli sui terreni sabbiosi. Era imperativo scendere da cavallo nei passaggi di duna ma pochi poliziotti lo facevano e i flessori delle falangi o il legamento sospensore del nodello si ‘strappavano’. Altra causa di ricovero, soprattutto nel periodo estivo, erano le piaghe da larve di mosche carnarie. Queste piaghe erano una vera maledizione. Interessavano le parti distali degli arti forse perché prive di riflessi cutanei e sostanzialmente immobili. Per di più i noduli sanguinolenti erano altamente pruriginosi. Per evitare che i cavalli si grattassero con i denti o con gli zoccoli era necessario ricorrere a ogni genere di espedienti come legarli ‘a due venti’, cioè con una corda per ogni lato della testa fissate bene in alto, o sospendere tra le zampe anteriori un sacco pieno di paglia in modo che lo zoccolo di un anteriore non potesse raggiungere l’altra zampa. E’ inutile aggiungere che alla fine i cavalli corde o non corde, sacco o non sacco, riuscivano sempre a grattarsi causando imponenti auto-traumatismi e mandando su tutte le furie il veterinario che nella fattispecie ero io, e il sopracitato Scia-aban che considerava il fatto come una sconfitta personale.
Quanto al medico veterinario la sua presenza era richiesta in occasione delle sedute chirurgiche, quando bisognava effettuare il cateterismo dei canali naso lacrimali per espellere le larve di mosche carnarie, o eseguire le castrazioni, o l’escissione di noduli tumorali. In queste occasioni si radunava una equipe piuttosto variegata di quattro o cinque aiutanti capitanata dal solito Scia-aban. L’anestesia era affidata a un vecchio baffuto, molto dignitoso che tutti chiamavano el Hag, cioè il santo, per essere andato in pellegrinaggio alla Mecca. Scia-aban provvedeva ad applicare le balze agli arti e a dare gli ordini necessari per abbattere il cavallo sul fianco. Una volta sul fianco e con gli arti legati a mazzetto il cavallo faceva sforzi imponenti per liberarsi ed era questo il momento atteso da el Hag per intervenire Dava di piglio alla maschera già munita all’interno di un grosso tampone imbevuto di cloroformio e l’applicava sul muso del cavallo. Il cavallo respirava rumorosamente emettendo nuvole di vapori saturi di cloroformio ed era già successo che el Hag stando a ridosso della testa del cavallo per impedirgli di muoversi cadesse in avanti addormentato con grave pericolo per il malcapitato e pregiudizio dell’igiene del campo operatorio. La cosa era risaputa e durante gli interventi tutti lo tenevano d’occhio.
Un’altra patologia, piuttosto comune nei cavalli bianchi, era la presenza dei melanomi. Detto per inciso i melanomi sono grossi noduli ripieni di materiale piceo che affliggono i cavalli bianchi quando passano una certa età. I cavalli bianchi, che in realtà sarebbe più corretto definire grigi, non erano numerosi ed erano indispensabili per la coreografia dello squadrone. Per questo motivo quando erano ricoverati venivano trattati con ogni riguardo. I melanomi interessavano le zone glabre del mantello e cioè il perineo, l’ano, il prepuzio e persino il pene. Non era una patologia maligna e gli animali potevano conviverci benissimo almeno fino a quando i noduli non rappresentassero un ostacolo meccanico alle funzioni fisiologiche. Ed era proprio con questa sindrome che un giorno arrivò a Sghedeida un paziente illustre : nientemeno che El Alamein, un castrone di venti anni capofila dei cavalli grigi e perno nelle evoluzioni dello squadrone. Il suo caso era piuttosto complicato perché i melanomi erano cresciuti a grappolo all’interno del prepuzio e impedivano la fuoriuscita del pene durante l’ urinazione. La conseguenza più imbarazzante era che quando El Alamein orinava faceva la doccia ai cavalli che gli erano a fianco. E poi, castrone o non castrone, il pene durante l’urinazione deve uscire e su questo non esistono dubbi. Più che un problema fisiologico è anche una questione di dignità equina.
Nel giorno programmato per l’intervento si scomodò persino il direttore del sevizio, un medico veterinario che era ampiamente in quella fascia di età dove riesce benissimo la funzione di direttore e meno bene la funzione di chirurgo. Ad ogni modo la squadra era al gran completo, Scia-aban alle balze, el Hag alla maschera e lo scrivente di supporto al direttore. L’escissione dei noduli all’interno del prepuzio procedeva a rilento. I vasi sanguigni grossi come matite appena recisi facevano scaturire getti di sangue a metri di distanza. Ma il bello (si fa per dire) avvenne quando giunse il momento di asportare il nodulo sul pene. Per evitare di aprire accidentalmente l’uretra fu introdotto un grosso catetere che servisse da guida e rappresentasse il limite invalicabile per il bisturi. Purtroppo nel corso dell’intervento forse per la stanchezza fu eseguita una manovra maldestra con l’apertura dell’uretra per un tratto di dieci centimetri. Gelo generale. Tutti capivano (ad eccezione di el Hag che era in stato di dormiveglia) che l’uretra a causa del passaggio delle orine, anche se suturata, non si sarebbe più richiusa e il cavallo sarebbe rimasto menomato per sempre E fu a questo punto che il direttore ebbe un’idea che non può essere definita altrimenti che peregrina. Amputare parzialmente il pene appena al disopra della fistola applicando le stecche da castrazione in modo da fermare il sangue e far cadere l’organo per necrosi. Io e Scia-aban ci guardammo in faccia con lo stesso pensiero : con questo sistema il pene non cadrà mai. Ad ogni modo non c’era scelta e cominciammo ad applicare le stecche avendo cura di non serrarle troppo. A questo punto l’intervento poteva dirsi concluso e ognuno poteva andare per la sua strada. Rimase solo Scia-aban per mettere un po’ d’ ordine e accudire il cavallo operato. Anch’io dopo i saluti salii sul maggiolino e mi avviai verso casa ma il pensiero fisso del povero El Alamein con il pene imprigionato in quello strumento di tortura non mi lasciava tranquillo. Così senza altri ripensamenti feci inversione di marcia e tornai a Sghedeida. Scia-aban era sempre lì accanto al cavallo. Gli chiesi come stava El Alamein e lui mi guardò con un’ espressione che voleva dire ‘vorrei vedere te’, ma era troppo educato per questo genere di battute e si limitò a dire ‘male’. ‘E allora’ dissi ‘torna sotto la pancia del cavallo e molla quelle maledette stecche’ ‘Ma, che dirà il mudir ?’ chiese . ‘Il mudir non dirà niente perché non lo saprà mai a meno che non sia El Alamein a dirglielo’.
Ad ogni giro di vite era come se mi togliessi di dosso un peso. Il cavallo finalmente liberato dalle stecche volle mostrarci la sua riconoscenza e il suo sollievo orinando abbondantemente. L’orina defluiva dall’orifizio naturale e anche dalla fistola che avevamo aperto con la nostra imperizia. Non era il massimo ma era sempre meglio di prima.
A distanza di alcuni giorni il direttore mi chiese come stava El Alamein. ‘Bene’ risposi. ‘E il pene è caduto?’ ’Non ancora’ dissi. ‘Beh è naturale’, disse lui, ci vuole del tempo’ ‘Certo , ci vuole del tempo’.