Era da un po’ di tempo che il buon Bakkusc, l’uomo che si prendeva cura dei miei animali domestici mi tormentava con la richiesta di un asino. Non un asino di Ragusa o di Pantelleria ma un asinello locale grande abbastanza per trasportare un fascio d’erba medica, un sacchetto di patate, la spesa per la famigliola e occasionalmente lo stesso Bakkusc. Ogni sera prima di accomiatarsi con le ceste piene di ortaggi e di frutta mi guardava con aria di rimprovero. Era una situazione eticamente insostenibile. Così un venerdì, vedendolo più afflitto del solito, gli dissi : ‘andiamo a Suk el Giuma a comprare questo benedetto asino’. Bakkusc, che evidentemente non aspettava altro, tirò fuori da una cesta una testiera nuova tutta infiocchettata di rosso e completa di briglie, con l’immancabile amuleto contro il malocchio, perché sarà anche vero che il malocchio non esiste ma esorcizzarlo è sempre meglio.
Suk el Giuma negli anni sessanta non era stata ancora raggiunta dalla espansione urbanistica della città ed era poco più di un borgo agricolo che si animava ogni venerdì in occasione del mercato . E Suk el Giuma in arabo significa proprio mercato del venerdì. Quel giorno confluivano in un grande recinto e venivano esposti in pittoresco disordine tutti i prodotti dell’artigianato locale, le verdure e i frutti delle oasi, e soprattutto una grande varietà di animali domestici.
In un angolo su di una stuoia , vidi, disposte in bell’ordine, delle infiorescenze bianche legate a mazzetto che, come mi spiegò Bakkusc erano fiori maschili di palma. Io fino a quel momento avevo considerato le palme esseri vegetali asessuati e invece ora venivo a sapere che esistevano palme maschio e palme femmina. I fiori maschili una volta portati in cima alle palme femmine e legati vicino ai grappoli avrebbero assicurato una migliore impollinazione e un raccolto più abbondante. ‘Comunque’ dissi a Bakkusc, ‘non siamo venuti qui per documentarci sulla sessualità delle palme ma per comprare l’asino’.
Il settore asinino era piuttosto affollato e c’era solo l’imbarazzo della scelta. C’erano asini grigi con la loro brava riga mulina e la croce di Sant’Andrea sul garrese, e asini neri con l’addome bianco noto in zootecnia come ventre di biscia. L’ostacolo maggiore era rappresentato dai sensali che ci inseguivano cercando di convincerci a comprare un asino piuttosto che un altro decantandone la forza e la bellezza. La scelta cadde su di un soggetto nero molto giovane con le orecchie erette e l’occhio vivace. Il costo era ragionevole e l’acquisto avrebbe potuto concludersi in pochi minuti ma un comportamento del genere sarebbe stato giudicato offensivo dal venditore e dal sensale. Bisognava invece intavolare una estenuante trattativa fatta di finte rinunce e repentine rincorse fino alla felice conclusione dell’affare. Bakkusc tirò fuori la sua bella testiera e la fece indossare, non senza qualche difficoltà al nuovo acquisto.
A questo punto c’era ancora una formalità da compiere : una sosta al bar per celebrare degnamente l’evento. Veramente più che di un bar si trattava di una bettola, non dissimile da quelle frequentate dai pirati e descritte da Stevenson ne ‘L’isola del tesoro’. Ma la cosa più stupefacente era che a gestire quella specie di antro fosse una signora italiana che tutti chiamavano affettuosamente ‘Mama’. Questa Mama era piccola e nera, sulla sessantina, di chiara estrazione meridionale col toupet d’ordinanza. Mi chiesi come facesse a non restare uccisa nelle risse tra avvinazzati che a giudicare dai volti congestionati dovevano essere piuttosto frequenti, ma poi, vedendola muoversi esile e minuta scansando abilmente gli avventori più turbolenti tenendo in equilibrio i boccali colmi di leghbi e traboccanti di schiuma capii che a proteggerla era la sua stessa fragilità. Nessuno avrebbe osato mancarle di rispetto o farle del male. Il proibizionismo gheddafiano era di là da venire e tutti trincavano allegramente soprattutto leghbi, il delizioso vino di palma.
Ma ormai era venuto il momento di congedarsi dopo il consueto rituale fatto di reiterate e interminabili strette di mano. Dissi a Bakkusc che in qualità di veterinario avevo delle visite urgenti da fare e che lo avrei aspettato a casa tra un paio d’ore. Lui nel frattempo avrebbe avuto l’opportunità di approfondire la conoscenza con il suo nuovo mezzo di trasporto. Ma a notte fonda non era ancora arrivato. Pensai che fosse andato a casa direttamente e invece me lo trovai davanti all’improvviso con gli abiti a brandelli e il viso rigato di sangue. Pensai subito che fosse stato investito ma lui fece cenno di ‘no’ con la testa. ‘E allora, dissi, cosa è successo?’ ‘L’asino non è domato e non si fa cavalcare’ rispose. Questa è un’altra novità, pensai, che fa il paio con il sesso delle palme. Che anche gli asini come i cavalli del Far West dovessero essere domati era la prima volta che lo sentivo. Tanto per sondare il terreno chiesi se nella zona ci fossero dei domatori di asini e mi rispose che ce ne erano a decine, ma il migliore, aggiunse, è un certo Jussef, che è un po’ caro ma sa il fatto suo’. ‘E quanto costa? ’chiesi. ‘Una piastra per seduta’. ‘E quante sedute ci vogliono?’. ‘Almeno cinque’. L’acquisto dell’asino si stava rivelando un vero e proprio investimento. Cominciavo anche a capire il motivo per cui il prezzo fosse così accessibile. Ma non c’era altro da fare e dissi a Bakkusc di fissare la prima seduta.
Il giorno dopo come in ogni rodeo che si rispetti si era radunata una piccola folla. Poi arrivò Jussef, che si avvicinò all’asino e lo fissò intensamente negli occhi per soggiogarlo da un punto di vista psicologico. Ma ci voleva ben altro. L’asino era insensibile ai messaggi subliminali e appena Jussef gli saltò in groppa si divincolò come un ossesso facendolo cadere rovinosamente. In realtà Jussef cercò di restare sull’asino avvinghiandosi con le gambe e restando appeso lateralmente come un cosacco del Don ma l’asino lo convinse a desistere con una doppietta di calci appioppati con rara precisione sul posteriore. C’era da sentirsi male dal ridere. Gli spettatori erano entusiasti. Meglio che al cinema, dicevano . Ridevano tutti tranne Bakkusc. Quanto a Jussef si rialzò dolorante per reclamare la sua piastra. Per farla breve le cinque sedute si risolsero in altrettante cadute e senza risultati apprezzabili. L’asino era refrattario ad ogni ammaestramento e forse era proprio per questo motivo che il proprietario e il sensale non vedevano l’ora di disfarsene.
Bakkusc fece un estremo tentativo di utilizzarlo aggiogandolo a un piccolo calesse con le ruote gommate che giaceva abbandonato tra i ferrivecchi. Per impedirgli di sollevare il posteriore e scalciare aveva predisposto tra le stanghe un sapiente groviglio di corde. Ma non c’era niente da fare. L’asino riusciva sempre a eludere le sue misure contenitive. Evidentemente la caratteristica di sollevare il posteriore e scalciare ce l’aveva scritta nel DNA ammesso che anche gli asini ne abbiano uno. Poi un giorno Bakkusc si presentò al lavoro a cavalcioni di un’asina, piuttosto vecchia e panciuta e dal colore indefinibile. Il mantello presentava qua e là ampie chiazze depilate. ‘E l’asino?’ Chiesi. ‘L’ho scambiato’ disse lui. . ‘L’hai scambiato con quella?’ ‘Quella’, rispose un po’ piccato ‘ porta fino a 200 chili e a passo svelto’. ‘A vederla non si direbbe’ feci io. Se ha delle doti le nasconde proprio bene’. ‘E dimmi, ha anche un nome?’ ‘Non ancora, ma se vuoi puoi trovarne tu uno’. ‘No grazie, anzi, fammi un favore, per un po’ di tempo non parlarmi più di asini’.